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Da una parte c’è Enrico, col suo sogno stroncato sul nascere dalla malattia. E dall’altra parte c’è Bubu, che di sogno ne ha realizzato un altro, impossibile da immaginare senza il dramma di Enrico.
Enrico, infatti, da quando era bambino giocava centravanti. E non aveva le spalle strette, ma un fisico da corazziere abbinato a una buona tecnica. Binomio che, da adolescente, lo aveva reso un astro nascente del calcio giovanile bolognese e lo aveva lanciato verso la possibilità di provarci davvero a fare il calciatore.
Finché un pomeriggio, durante una partitella di allenamento, Enrico prese “una botta sulla gamba come tante altre” e la sua vita cambiò. Già, perché quel colpo fortuito si trasformò in un dolore persistente, in un fastidio dapprima sopportabile poi opprimente e, soprattutto, difficilmente spiegabile. A spiegarlo, invece, pensò una squadra di un tipo che Enrico non aveva mai frequentato, che per mestiere non cercava di mettere la palla in porta.
Furono i medici di un’eccellenza bolognese molto diversa dalle polisportive Progresso e Corticella, l’Istituto Ortopedico Rizzoli, a scoprire che l’arto muscoloso di Enrico nascondeva un osteosarcoma. Parliamo di un grave tumore osseo che non avrebbe potuto che espandersi, che avrebbe rischiato di metastatizzare. E che, perché il paziente non rischiasse seriamente la vita, portò in breve all’amputazione della gamba con la quale Enrico, fino a poche settimane prima, spaccava i pali e le traverse. Da lì, la vita del giovane uomo che aveva un sogno precipitò nel dramma: “Chemioterapia, interventi, dolore, gente del reparto che inizia un percorso con te poi un giorno, all’improvviso, non c’è più”. Si accappona la pelle a leggere queste parole, figurarsi a sentirle dalla voce di Enrico, già cavernosa per natura e resa ancora più grave dal peso dei ricordi. “Da fratello maggiore, poi, non volevo farmi vedere debole dai più piccoli, e se la chemio era pesante fisicamente, mentalmente le difficoltà pesavano forse anche di più”.
E qui, per liberarlo dal macigno della consapevolezza che la sua esistenza non avrebbe più potuto scorrere nella direzione che Enrico aveva sperato, il quarto uomo ha improvvisamente chiamato a voce alta il numero di Enrico.
E a sostituirlo al centro dell’attacco è entrato Bubu. Anzi, per la precisione Bubu Doc, nome di battaglia di una promessa del calcio che il cancro ha trasformato in promessa, anzi in realtà, della scena musicale. È grazie al rap e alla sua capacità di convogliare la rabbia dei giovani meno fortunati verso il riscatto (oltre che grazie al lavoro e all’umanità di oncologi, ortopedici e fisioterapisti) che Enrico/Bubu è infatti riuscito a uscire dal suo tunnel. Col rap, infatti, Bubu/Enrico ha sperimentato una sorta di catarsi. Ha usato i testi delle sue canzoni (in particolare uno, quello della hit intitolata, non a caso, col suo nome di battesimo) per buttare fuori tutte le scorie di chi già di per sé rischia di provare qualche rancore verso il mondo. Ha rappato per dire che “non puoi farmi più male, non lo sento il dolore”, anche se “tutti parlan di Bubu ma nessuno di Enrico”. Il pezzo che lo ha reso una piccola celebrità, poi, dopo il ricordo degli ospedali in cui il protagonista della storia ha “passato un anno, mica solo due ore”, termina con un appello a tutte le persone che soffrono perché tengano duro, dedicato “a tutti i malati e a tutti gli ospedali d’Italia” e chiuso da un semplice quanto toccante “vi voglio bene”.
Ecco, volere bene. Se abbiamo raccontato questa vicenda non è solo perché ci ha ispirato, ma è anche perché questo ragazzo che la malattia ha piegato ma mai spezzato ora ha bisogno di noi. La protesi che gli permette di camminare dopo l’amputazione, infatti, è ormai logora e obsoleta e gli provoca forti dolori ogni volta che deve muovere un passo. Facendo pensare, dopo anni in cui il suo corpo è cambiato profondamente, che si avvicini il giorno in cui non lo reggerà più. L’apparecchio che potrebbe rendere la vita di Enrico un po’ più semplice è molto costosa, soprattutto per un ragazzo che vive solo, in una casa Acer e senza un’ampia disponibilità economica.
Lo abbiamo incontrato insieme all’uomo che lo ha curato, il dottor Costantino Errani dell’Istituto Rizzoli, che operò Bubu a suo tempo e ora lo tratta, se non come un figlio, come uno di famiglia. Lo abbiamo preso in carico come nostro paziente – per i prelievi a domicilio e altri aiuti – e insieme abbiamo deciso che la sua situazione meritasse di essere condivisa.
Come sempre, il vostro aiuto si rivelerà prezioso. Parlate di Enrico adesso se la sua storia vi ha toccato. Perché è lui che ora ha tanto bisogno di voi, mentre Bubu pare potersela cavare da solo.

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