Ha un sorriso disarmante A., capelli biondi ricresciuti più forti che mai nonostrante le terapie, occhi azzurro chiaro come il cielo d’inverno. Ride Alexandra anche quando racconta dell’ospedale, delle TC, della stomia che non sempre funziona come dovrebbe, dei dolori alla schiena che ogni tanto si fanno sentire. Ti racconta delle foreste immense e verdi della Romania, dell’odore del bosco e della rugiada di prima mattina, delle montagne che l’hanno vista crescere e che hanno vegliato su di lei anche quando in un giorno di vacanza è dovuta correre in ospedale ed è tornata a casa con un sacchetto sulla pancia ed una parola spaventosa tra le labbra. Ti racconta del coraggio di prendere quella parola e affrontare giorno dopo giorno, una visita alla volta, una terapia alla volta. Ha un marito e un figlio di 13 anni, A. ed entrambi stravedono per lei, progettano viaggi, avventure e, talvolta, discutono per qualche pagella o per qualche partita di troppo alla Play Station. Entro sempre un pò in punta di piedi a casa di A., quando ci si trova al cospetto di una donna la cui gioia di vivere va oltre alla fatica della malattia hai sempre il dubbio di essere di troppo o forse di non essere abbastanza.

“Come stai?” mi chiede battendo la mano sul letto e invitandomi a sedere vicino a lei. Mi sorride sotto la mascherina. “Come sto? Guarda che sono io a venire a visitare te!” le rispondo scherzando “Che succede? Hai ancora male?” continuo e mi racconta dei suoi dolori, quelle fisiche e quelle del cuore.

“Sai, sto prendendo quella medicina lì ma oggi proprio non funziona “.

Ci accordiamo per una flebo ma oggi è sola col figlio, mi guarda: “Resti con me?”.

Di solito non si può, se dovessi restare per ogni paziente non basterebbero le ore di una giornata, però non ho il coraggio di declinare e quindi le rispondo : “Certo!”, preparo tutto, flebo, deflussore accesso venoso e mi siedo accanto a lei. Parliamo del più e del meno, dei nostri mariti, di suo figlio che è bravissimo a scuola ma per cui lei è comunque preoccupata, della dottoressa che la segue in ospedale e che lei adora, degli esami da fare e di cosa preparare per cena perché ogni tanto l’appetito non ce l’ha proprio.

Finisce la terapia, il tempo alla fine è volato, le chiedo se sta meglio: “Sì cara, sto bene”.

Scrivo in cartella, metto via le mie cose e il materiale, aggiorno la terapia. “Chiamami se hai bisogno e fammi sapere come va” mi raccomando.

Mi risponde positivamente e mi illumina con un altro dei suoi sorrisi.

La saluto, prendo l’ascensore e arrivo alla macchina, suona il telefonino, è un messaggio da parte sua: “Ti voglio bene cara, grazie”. Questa volta sono io a sorridere.

Marialuisa Marino