Parziale superamento del concetto di numero chiuso, grazie a un primo semestre aperto e alla contemporanea iscrizione delle matricole a corsi di studio affini che fungano da ‘paracadute’ in caso di mancato superamento dei primi sei mesi ad accesso libero, abolizione degli spesso controversi test di ingresso e accento posto sul concetto di merito.
La riforma dell’accesso ai corsi di laurea magistrale a ciclo unico in Medicina e Chirurgia, Odontoiatria e Protesi Dentaria e Veterinaria, che con la firma della ministra Bernini sul relativo decreto entrerà in vigore già dall’anno accademico ’25/’26, nei suoi caratteri generali non può che trovarmi d’accordo. Anche perché punta con decisione e buona volontà a risolvere uno dei più annosi problemi del nostro Sistema Sanitario, pubblico o privato che sia: la cronica carenza di personale medico.
Da più parti però, a cominciare da diverse sigle sindacali di categoria, leggo critiche che paventano una sproporzione fra i professionisti della sanità (che, se tutto va bene, usciranno dagli atenei in numero maggiore rispetto agli ultimi tempi e si affacceranno al lavoro fra il 2034 e il 2037) e le capacità di loro assorbimento da parte del SSN e degli enti privati sanitario-assistenziali. Questo, soprattutto, sulla base dell’atteso calo dei pensionamenti, che passeranno dalle quasi 15mila unità del 2025 alle poco meno di 5mila del 2040.
In sostanza, quindi, c’è chi afferma che le maglie più larghe all’ingresso dei corsi di laurea (non poi così più larghe in realtà, visto che dopo sei mesi si procederà comunque a un ‘taglio’ dei non meritevoli) creeranno una generazione di sanitari disoccupati, che dopo essere stati formati in Italia non potranno che volare con sempre maggiore frequenza oltreconfine per trovare un impiego, come del resto, purtroppo, già accade ora.
Nulla di più falso, a mio parere, sia perché l’attuale fabbisogno di sanitari inevaso è davvero ingente e rappresenta oggi uno dei limiti più problematici per il buon funzionamento della nostra macchina sanitaria (quindi preoccuparsi ora di un eventuale ribaltamento della situazione mi pare prematuro), sia perché le cifre raccontate dai sindacati, soprattutto le paventate 220mila unità in più rispetto ad oggi entro il 2040, mi sembrano quantomeno eccessive.
Il vero tema, semmai, è quello legato al finanziamento non tanto dei nuovi corsi, per il quale sono già stanziati ad hoc 50 milioni di euro, quanto dei costi legati all’aumento del personale, che dovrà essere parte di quel generale incremento delle risorse a disposizione della Sanità dal quale passerà la sopravvivenza stessa del sistema. Tra sforzi di programmazione in tema di risorse umane, investimenti mirati su strutture e personale e nuovi modelli assistenziali sostenibili dal punto di vista economico e da quello sociale.
In conclusione, bene la riforma nelle sue linee generali, ma attendiamo che lo Stato confermi i suoi impegni allargando i cordoni della borsa.