Venerdì 10 maggio 2024, al Centro di Formazione Istituto Gianna Gaslini di Genova, si è tenuto il Convegno di Macro – Area Nord Ovest .

L’evento ha chiuso un percorso avviato tre anni fa che ha visto le quattro Regioni coinvolte affrontare il tema delle Cure Palliative a 360 gradi, spaziando dai modelli organizzativi, sino ad arrivare ai bisogni dei malati, delle loro famiglie, dei caregiver e, non da ultimo, dei professionisti coinvolti, in tutte le fasi della malattia e della cura.

Tutto questo si è realizzato grazie ad un proficuo confronto tra professionisti che hanno saputo trasmettere alla platea, il valore delle Cure Palliative, secondo principi di continuità, prossimità, equità e sostenibilità.
In questo ultimo appuntamento, dopo aver affrontato nei primi incontri rispettivamente i temi dell’identificazione del Bisogno di Cure Palliative e dell’appropriatezza della presa in carico in Cure Palliative, sono stati affrontati gli aspetti biopsicosociali del fine vita.

Riportiamo un estratto del bellissimo intervento ” Fine vita e lutto: il punto di vista dello psicologo” della Dr.ssa Francesca Perletti, psicologa dell’equipe sanitaria di Fondazione ANT delegazione di Brescia:

L’ intento del mio intervento è quello di condividere e stimolare riflessioni circa lo svolgersi del tempo nell’esistenza umana, con uno sguardo particolare ai vissuti che si animano, nei pazienti e nei curanti, nel tempo del lutto e del fine vita.

Il lutto non riguarda solo la perdita di una persona cara o una diagnosi infausta. Vivere, in fondo, significa fare continue esperienze di perdita, in un susseguirsi di lutti.

ll lavoro in Cure Palliative è un lavoro emotivamente faticoso: oltre al costante contatto con la malattia e la sofferenza, esso implica un continuo sostare in quella terra di mezzo tra vita e morte, tra disperazione e speranza, tra un dolore che può generare un nuovo e più profondo contatto con se stessi e un dolore, al contrario, che inaridisce l’anima. Nei momenti bui tenere aperta la porta della tenerezza e mantenere accesa la fiamma della speranza può risultare una sfida insostenibile per qualcuno.

L’ impotenza e il dolore, generalmente, inducono alla chiusura. Ma è la qualità di questa chiusura a fare la differenza, perchè le esperienze traumatiche possono diventare anche occasioni trasformative se utilizzate per un dialogo generativo con se stessi e con la propria solitudine. Come scrive Eugenio Borgna, ci sono due tipi di solitudine: c’è una solitudine animata, aperta, che si affaccia al mondo delle persone e delle cose; alimentata dal desiderio di essere in relazione con gli altri, e con le radici della misteriosa capacità creativa della nostra interiorità.

C’è, poi, una solitudine sterile, chiusa, che si fa isolamento, che nasce dal rifiuto del dialogo e della comunione; una solitudine che non può generare alcunché: in questi casi, l’individuo è chiuso nei confini della propria soggettività, nell’impossibilità di abitare la speranza, da sempre orientata verso il futuro. E allora, è depressione maligna, risentimento, distruttività. Ma come non comprendere la disperazione, la rabbia, l’odio, l’impotenza, l’invidia?

La diagnosi e il possibile decesso del proprio congiunto sono eventi catastrofici, tsunami che travolgono e stravolgono gli equilibri preesistenti. Tutto è da ridefinire. C’è un prima e un dopo. Gli orizzonti di senso della propria esistenza cambiano: si chiude un mondo, e quello che si prospetta espone ad angosce abissali, incrinando ogni certezza e ogni fiducia verso il futuro.

Nel caso di malattia, l’angoscia è indicibile: la Morte non può più essere rimossa.

il paziente si guarda allo specchio e non si riconosce più; si guarda, sa di essere quel riflesso nello specchio ma fatica a ritrovarsi. I familiari non riconoscono la forma, l’odore, le proporzioni di quel corpo. I ruoli all’interno della famiglia, necessariamente, cambiano con le inquietudini, le insicurezze e le paure connesse a tale cambiamento. Un momento di destabilizzazione, che porta alla consapevolezza della nostra fragilità di esseri umani. Nel caso del lutto, il tempo si connota di Assenza; è il tempo dell’assedio di una presenza costante che non smette di tormentare con il suo silenzio. Un silenzio assordante.

Nel tempo dell’Assenza tutto ciò che ci riguarda viene messo sotto sopra, con la necessità incombente di ristabilire nuovi orizzonti di senso.

Ecco allora, l’importanza della gentilezza e della tenerezza. Di parole cordiali e solidali, o di gesti garbati quando l’emozione non permette alla parola di articolarsi. Parole e gesti che possono fare la differenza.

Ecco l’importanza di un passo felpato, come lo ha definito una volta il Coordinatore sanitario dell’Odo di Brescia dove lavoro, Dr Francesco Baldo. Un passo gentile.

Una postura che faccia della gentilezza, della pazienza e della tenerezza, la qualità dell’ascolto, dei gesti e delle parole: veri e propri strumenti di cura. Strumenti che possono migliorare la qualità di vita del paziente e della sua famiglia e, perchè no, anche dei curanti. Perchè – comunque vadano le cose – quando sentiamo di aver realmente incontrato l’essere umano che ci sta di fronte, con quel suo sguardo disorientato e angosciato, sappiamo di aver fatto la differenza. Sappiamo di aver alleviato, anche solo per qualche minuto, il senso di smarrimento e di solitudine che lo spettro della morte porta con sè. Perchè ci sono parole e gesti che, per usare le parole di Borgna “sono creature viventi”, parole che creano ponti e che, come arcobaleni, animano la speranza di un altrove possibile, favorendo il germogliare di nuovi orizzonti di senso. Parole che possono aiutare a fare pace con il proprio destino, cercando di immaginare il disegno più grande che si cela oltre le apparenze del presente. Ma, al contrario, ci possono essere parole e gesti, che creano distanze, che amplificano il vissuto di albergare nelle lande gelide di una solitudine incolmabile. Perchè la parola ha bisogno di un silenzio interiore e di un ascolto mirato ad accogliere. Ascoltare, comunicare, implica una prossimità, significa mettersi in gioco, entrare in contatto intimo ed emozionale con l’Altro.

Dall’osservatorio particolare che è quello delle Cure Palliative, si guarda al tempo con occhi disincantati, con occhi consapevoli della fragilità umana e della finitudine del nostro Esistere. La malattia oncologica e la sua cura possono riattivare o innescare domande sul mistero della Vita e della Morte, o sul senso della propria esistenza. Possono alimentarsi quesiti, ricerche relativi all’Oltre. Cosa c’è dopo la morte? Il Nulla? Qualcosa? L’esistenza continuerà sotto diverse forme? E l’Anima? Dio o la Scienza? Ci sono molti misteri che interrogano l’umanità da sempre: la Nascita, il Destino dei singoli, l’Amore, il senso della Vita, la Bellezza della natura, dell’Universo e dei cieli stellati. Credo che la Morte rimanga, tuttavia, il mistero dei misteri, dentro il quale ognuno di noi possa mettere le proprie domande e trovare le proprie risposte. Mi piace allora concludere con le parole del pittore olandese Vincent van Gogh che, in una delle tante lettere scritte al fratello Theo (nr 638 del 9 o 10 luglio 1888), così si interroga a tal proposito:

“… Io dichiaro di non saperne nulla, ma da sempre vedere le stelle mi fa sognare tanto semplicemente quanto mi fanno sognare i puntini neri che sulla carta geografica rappresentano le città e i villaggi. Perchè, mi chiedo, i puntini luminosi del firmamento dovrebbero esserci meno accessibili dei puntini neri sulla cartina della Francia? Come prendiamo il treno per andare a Tarascona o a Rouen, allo stesso modo prendiamo la morte per andare su una stella. Ciò che è senz’altro vero in questo ragionamento è che, in vita, noi non possiamo andare su una stella. Così come, da morti, non possiamo prendere il treno. Insomma, non mi sembra impossibile che il colera, la renella, la tisi, il cancro siano dei mezzi di locomozione celeste come i battelli a vapore, gli omnibus e le ferrovie sono dei mezzi terrestri.
Morire serenamente di vecchiaia equivarrebbe ad andarci a piedi…”.

Dr.ssa Francesca Perletti